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30 Marzo 2021
Imprese sociali: no a start up a vocazione sociale?
Un parere interpretativo del Ministero dello Sviluppo economico sancisce l’incompatibilità tra le due qualifiche. Per Paolo Venturi, direttore di Aiccon, «un fatto grave e culturalmente devastante perché afferma che l’innovazione merita incentivi fiscali ed un riconoscimento automatico se è digitale, mentre se é sociale ed é promossa da imprese appartenenti al Terzo Settore non è incentivabile». Per il costituzionalista Luca Gori «la strada per dirimere la questione è culturale, non giuridica»
“L’eventuale acquisizione (in presenza dei presupposti di legge) della qualifica di impresa sociale dovrà pertanto avvenire contestualmente (o successivamente) alla perdita della qualifica di SIAVS”. Così si chiude un parere intepretativo del Ministero dello Sviluppo economico (saricabile in allegato) che rispondeva ad un quesito intepretativo sulla compatibilità tra le qualifiche di startup innovativa a vocazione sociale e impresa sociale (SIAVS).
La risposta «dice in sostanza che l’acquisizione della qualifica di impresa sociale può avvenire solo contestualmente alla perdita di qualifica di SIAVS. Si è quindi certificata l’incompatibilità di essere impresa sociale e insieme SIAVS», sottolinea Paolo Venturi, direttore di Aiccon, Associazione Italiana per la promozione della Cultura della Cooperazione e del Nonprofit.
Oggi in Italia ci sono 260 SIAVS e sono imprese che non possono avere più di cinque anni e non possono avere un fatturato più alto di 5 milioni di euro. «Questa presa di posizione è poco comprensibile. Dentro all’universo delle SIAVS ci sono già delle imprese sociali. Ci sono cooperative sociali, che oggi de facto sono imprese sociali, e srl impresa sociale. Rappresentano il 10% e sono circa 30. Adesso queste realtà cosa faranno?», sottolinea il direttore di Aiccon.
Per Venturi però il problema più grave è sostanziale. «Siamo di fronte per l’ennesima volta ad un problema culturale gigantesco. Avevamo già visto, quando si è parlato circa i ristori della finanza per il Terzo settore, l’incapacità di erogare fondi alle organizzazioni perché non si riconosceva il tema imprenditoriale, come se non facessero economia e non creassero occupazione. Steccati e gabbie che esistono solo in Italia perché la normativa europea include in questo senso il mondo sociale».
C’è poi un’altra questione: «Oggi le startup innovative sono stabilite tale sulla base di categorie di natura digitale, legate alla conoscenza all’intensità di questa conoscenza, totalmente slegate dal fine e dall’impatto, hanno detrazioni fino al 50%. Persone fisiche che possono avere detrazioni fino a 100mila euro».
La conclusione per Venturi è «che oggi fare un’impresa sociale è da folli. Questa legislazione crea una condizione di disparità per cui se un’organizzazione vuole fare innovazione sociale deve necessariamente polarizzarsi verso società di capitale se vuole avere degli incentivi. Non c’è niente di male in questo se non fosse che nega a persone e imprese la possibilità di scegliere. Negare la biodiversità dell’impresa è un fatto gravissimo».
Un parere, quello del Ministero, che oltre a sancire questa dicotomia «demoralizza perché afferma, per l’ennesima volta, che l’innovazione sociale, per il semplice fatto che non è digitale, è una categoria dello spirito. Siamo nuovamente al punto di partenza: l’innovazione genera valore se è digitale mentre se è sociale questo valore non è quantificabile e quindi non è incentivabile. È un passo indietro mostruoso, si torna ad una dicotomia tra business vs sociale. Occorre una grande movimentazione sociale perché questa interpretazione venga ribaltata, e si abbia finalmente un riconoscimento del Terzo settore anche nei campi di innovazione e imprenditorialità». Anche perché, conclude Venturi, «oggi in Italia esistono almeno dieci facoltà che stanno coltivando questi temi. Insegnano ai ragazzi cose che domani, una volta usciti dal mondo accademico, non potranno fare che srl e società di capitali», conclude Venturi.
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