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Terzo settore: non siamo buoni, siamo efficienti

«È tempo che le istituzioni si occupino di Terzo settore non solo definendo il quadro legislativo, ma anche riconoscendo ad esso la responsabilità e la capacità di attuare politiche ed interventi. Ormai vi sono esperienze consistenti in cui il sociale ha dimostrato di essere all’altezza di giocare un ruolo da protagonista e non da mero destinatario degli interventi». L’editoriale di Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione con il Sud, sul numero del magazine di marzo

Da un certo punto di vista si potrebbe essere soddisfatti per le prospettive del Terzo settore: partecipazione al tavolo degli Stati Generali promossi da Conte, consultazione da parte del Presidente incaricato Draghi, sempre più frequenti citazioni nei resoconti politici ed anche nei discorsi dei leader di partito. E poi frequenti richiami al Terzo settore nel testo del Pnrr.

Queste “novità” non vanno sottovalutate, ma bisogna avere chiara coscienza che siamo appena agli inizi di un percorso: un percorso difficile, accidentato che sarà, presumibilmente segnato da momenti di confronto anche duro con le forze politiche e le istituzioni. La posta in gioco è molto chiara. Da una parte lo schema classico, tradizionale, confermato in anni ed anni di scelte nelle politiche di welfare: le politiche sociali sono questione dello Stato e delle sue articolazioni; lo Stato associa, in qualche modo, il Terzo settore nell’attuazione delle politiche, lasciando spazi più o meno consistenti per attività di co-progettazione , di sperimentazione, di co-programmazione (più raramente). In questo schema, ancorché edulcorato da continui attestati di benemerenza, il privato sociale si muove in una logica di sostanziale subalternità, ora di esplicita supplenza, ora di parziale, benevolo coinvolgimento.

Dall’altra parte un mare di esperienze, di pratiche, di verifiche che sanciscono due circostanze; la prima è che il Terzo settore è allo stesso tempo erogatore di servizi di inclusione ed interprete dei bisogni e della domanda di giustizia espressa dai soggetti più fragili; la seconda è che sempre con maggiore evidenza il superamento delle diseguaglianze e l’inclusione sociale, sono un’irrinunciabile premessa per lo sviluppo, il che fa del Terzo settore non un comprimario ma un protagonista nello scenario politico.

È tempo che le istituzioni si occupino di Terzo settore non solo definendo il quadro legislativo, ma anche riconoscendo ad esso la responsabilità e la capacità di attuare politiche ed interventi. Ormai vi sono esperienze consistenti in cui il Terzo settore ha dimostrato di essere all’altezza di giocare un ruolo da protagonista e non da mero destinatario degli interventi. Cito il Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile: non un esperimento pilota, con una dotazione complessiva di 600 milioni. Il Terzo settore, con le Fondazioni di origine bancaria, attraverso la Fondazione Con il Sud, gestisce il Fondo. I risultati dal punto di vista dell’efficienza sono sotto gli occhi di tutti, in quanto a tempi e a costi. Per giudicarne l’efficacia bisognerà aspettare il tempo delle complesse valutazioni messe in atto: ma a detta di tutti si è sulla buona strada.

Perché funziona? Perché finalmente siamo di fronte ad una esperienza che dimostra che c’è spazio per interventi pubblici ma non statali. Questa è la vera questione. La mia esperienza, da questo punto di vista è esemplare. Da anni ho proposto ai vari ministri per il Sud di utilizzare il know how della Fondazione per l’attuazione di interventi: assicurando la massima trasparenza nella valutazione e nei monitoraggi, non chiedendo alcun compenso, garantendo una piena dimensione pubblica. Mai una risposta affermativa, invocando vincoli procedurali, ma in realtà difendendo il primato “pubblico” non solo nella definizione delle politiche, ma nella gestione degli interventi, per la gioia dei funzionari ministeriali. Ma esperienze analoghe le ho fatte a livello regionale.

Per la cronaca, vi sono esperienze a livello europeo in linea con quello che ho ripetutamente proposto. Questo atteggiamento ha causato danni fortissimi. Non bisogna dimenticare l’incredibile storia dei Pac, 2013. 730 milioni (!) destinati ad interventi per la prima infanzia e per gli over 65 in quattro regioni del Sud. Nonostante pressioni e sollecitazioni la misura venne affidata in gestione al ministero dell’Interno. Il ministero dell’Interno chiese ai Comuni di presentare progetti. I Comuni , salvo quelli più grandi, chiesero alle organizzazioni di Terzo settore cosa fare. Una scelta irresponsabile ed un grave disastro. Sono passati 8 anni e credo che le risorse erogate non raggiungano un terzo di quelle stanziate. Perché? Per rispettare il principio, per confermare l’equazione per cui un intervento è pubblico solo se gestito dalla Pubblica Amministrazione. La stessa logica ha caratterizzato l’attuazione degli interventi dell’ultimo Pon inclusione.
DA: http://www.vita.it/it/article/

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